SUPERMARIO #DRAGHI: La prova che uno non vale uno.

SUPERMARIO #DRAGHI: La prova che uno non vale uno.

Avevamo letto (e detto) di “un governo di unità nazionale presieduto da #MarioDraghi”, con “le più autorevoli e prestigiose personalità politiche e tecniche di cui questo Paese dispone…”.
Poi però mi dicevo che è inutile, che tanto Draghi non voleva, che la #GrosseKoalition all’italiana diventava la solita ammucchiata, che #Salvini non avrebbe mai ceduto, che in Parlamento non aveebbero mai la fiducia, che poi ce lo dite da anni, “basta governi non eletti dal popolo”. Così ho seguito le consultazioni con la solita delusione e la solita rassegnazione: per quanto inadeguato, il Conte Due non aveva alternative. Non avevo capito nulla. Uno per uno, sono caduti tutti quegli ostacoli che mi frullavano per la testa. Draghi vuole, il suo governo non è una Grande Ammucchiata, lo vuole fare persino Salvini, in Parlamento si profila una maggioranza larghissima, il popolo non ha votato ma forse stavolta capirà.

Se il miracolo accadrà, due fattori lo avranno reso possibile. Il primo fattore è il “default” del sistema politico, che dopo una legislatura di trasformismi e 147 cambi di casacca si è infine arreso all’evidenza: saltato Conte, fusibile multiuso di qualunque maggioranza, il cortocircuito dei partiti non ha potuto generare altro, se non lampi di frenetico e patetico nulla. Il secondo fattore è il “bailout” di #SergioMattarella, che ha messo in mora l’intero ceto politico, ha convinto Draghi a salvare la Patria e gli ha conferito un mandato chiaro come il sole: “Un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Il presidente incaricato sta eseguendo la missione. Ascolta molto, prende appunti.

Da giovedì scorso non ha ancora detto né fatto niente. Eppure in 3 giorni stanno succedendo cose che non succedevano da 30 anni. Indizi di una rivoluzione copernicana, di cui Draghi è il motore immobile e i partiti i corpi celesti in rotazione. All’ex governatore della Bce dicono sì i Cinque Stelle, e già questa è una congiunzione astrale impensabile solo fino a pochi anni fa. #BeppeGrillo scende dal canotto del #VaffaDay di Bologna, torna a Roma senza apriscatole, entra disarmato nel barattolo di tonno della Camera, si siede al tavolo di fronte a quello che fino al 2018 era Satana, parla con lui di programma e di squadra, dice “lui è come noi”, vede “le fragole mature”. #LuigiDiMaio non ricorda neanche più il balcone di Palazzo Chigi e la postura da tribuno della plebe, non arringa più la sua gente urlando “abbiamo sconfitto la povertà”, la persuade dicendo “Draghi è credibile, M5S lo ascolti”, tiene anche lui famiglia e nei momenti difficili “la famiglia si deve ritrovare”. Gli ultimi giapponesi provano a resistere, #Dibba mugugna, #Lezzi borbotta. E certo, in quel cielo pentastellato restano i buchi neri, la pochezza culturale e l’indistinto identitario, la fugace democrazia interna e la tenace foga giustizialista.

Una metamorfosi ormai pare quasi compiuta: la gioiosa macchina anti-politica che doveva asfaltare il sistema si sta facendo carico di ricostruirlo. Il Movimento che rivendicava la sua verginale e irriducibile autosufficienza oggi si inchina alla realtà e si sacrifica alle larghe intese. Più che imputargli la patente contraddizione, dobbiamo riconoscergli una stupefacente maturazione. All’ex governatore della Bce dice sì la Lega di Salvini, e questa è una Pasqua di maggio ancora più strabiliante. La punta di lancia tricolore dell’Internazionale Sovranista ispirata da #SteveBannon, che nella campagna elettorale del 2018 voleva il referendum per uscire dall’euro e dalla Ue, oggi grida “vengo anch’io” all’esecutivo guidato dall’uomo che l’Europa l’ha salvata con tre parole, “whatever it takes”, e l’ha difesa con un bazooka monetario, il “Quantitative easing”. Oggi, spenti i lumi distopici di #Visegraad e smaltiti i fumi alcolici del #Papeete, il Capitano dialoga con il non più esecrato banchiere centrale e annuncia “siamo in sintonia, siamo a disposizione”. Non offre solo voti, chiede ministeri, vuole stare dentro il nascente governo più #europeista della Storia repubblicana. Arrivato Biden, tramontato il disegno del nazionalismo trumpista, filo-russo e anti-occidentale, persino “l’altro Matteo” capisce che questo governo è l’ultimo treno che può riportare il Carroccio dentro i confini di un’Europa dalla quale si era masochisticamente autoescluso. Anche questa, un’altra mutazione genetica che lascia basiti. A offuscare l’orizzonte rimangono pochi residui “no, tu no”: i 5S verso Berlusconi, Pd-Leu verso Salvini, Giuseppe Conte verso se stesso.

Un comprensibile travaglio politico (e nel primo caso anche giornalistico), che tuttavia non sembra così acuto da fermare la corsa di Draghi. Zingaretti bacerà il rospo leghista. La sua leadership non scalda i cuori come #Berlinguer e non produce egemonia come #Gramsci, ma un merito ce l’ha: in un anno e mezzo ha riportato il partito democratico al centro del villaggio e il Movimento Cinque Stelle al centro dell’Unione europea. Per il resto sarà il premier in pectore a trovare la sintesi tra politici e tecnici. Una diade per altro insensata: a prescindere dagli incarichi ministeriali, ogni atto di governo è comunque politico. È stato così per Ciampi nel ’93, per Dini nel ’95, per Monti nel 2011. Sarà così anche per Draghi, qualunque sia la sua piattaforma programmatica.

La verità è che dire di no a Draghi è maledettamente difficile. E qui c’è una lezione da imparare. Draghi è la prova vivente che uno non vale uno. Le persone contano. La competenza fa tutta la differenza. Non si tratta di farne un mito, un eroe, un santino. Potrà sbagliare, e forse anche fallire. Ma quello che ha fatto in 50 anni al Tesoro, alla Banca d’Italia, alla Bce, oggi fa di lui la migliore risorsa che il Paese può esprimere. Come dice il vecchio Rino Formica, “è il garante della nostra credibilità”, nazionale e internazionale, rassicura e offre garanzie sull’uso dei fondi, e “si vede che ha sempre maneggiato l’esplosivo che regge il mondo, la finanza e la moneta”. E il solo fatto di aver ricevuto l’incarico, oltre ad aver abbattuto lo spread, ha già sconvolto il disastrato palazzo italiano. E qui c’è un’altra lezione da cogliere. Il ciclo populista e grillo-leghista, che sembrava destinato a durare un ventennio, si sta invece esaurendo. La ricomposizione del centrosinistra riformista, intorno all’asse Pd-M5S, sembra probabile. La scomposizione della destra radicale, confinata nel recinto di una Meloni coerente ma respingente come il vecchio Msi, sembra possibile. È ancora presto per dirlo. Ma forse dalle ceneri di questa politica potrebbe persino rinascere quel “Paese normale” che inseguiamo ormai dalla notte dei tempi.