Infodemia. L’epidemia al tempo dei social e delle fake news.
Mentre il conto delle persone positive al nuovo coronavirus sale, cresce il timore di una febbre di tipo diverso: quella da eccesso di informazione. La preoccupazione è che il continuo flusso di notizie sull’infezione stia creando un’ossessione collettiva. Dovremmo sforzarci di focalizzare i nostri pensieri anche su altro? C’è chi tenta di farlo.
Il Cnr ad esempio ha scelto proprio ieri per divulgare uno studio sulla storia genetica dei Sardi: una ricerca brillantissima, mache in questo momento ha poche probabilità di catturare l’interesse generale. La preoccupazione destata da una epidemia con la quale la nostra specie non si è mai confrontata prima è del tutto legittima. E l’impatto emotivo ed economico dei provvedimenti presi per impedire l’allargarsi dei focolai è tale da rendere impossibile non parlarne e non voler almeno provare a capire se quanto ci viene richiesto è necessario. Ciò che sta avvenendo nel Nord Italia è qualcosa di cui nessuno di noi ha memoria. Se in Germania si elogia la compostezza con cui i nostri connazionali reagiscono alle limitazioni imposte, le immagini di Milano svuotata lasciano sgomenti. E la chiusura di un luogo simbolo come La Scala, avvenuta solo altre sei volte in 242 anni di Storia, crea un senso di costernazione. Tutto questo però non migliorerebbe se parlassimo meno dell’epidemia: se c’è qualcosa che crea ancora più angoscia di un’emergenza, è la sensazione che ci sia reticenza nel riferire i fatti. Questa sì, alimenta il panico e con esso le notizie incontrollate che viaggiano velocissime sul web. Proprio alle “bufale” pensa l’Organizzazione Mondiale della Sanità quando esprime preoccupazione per la “infodemia”, cioè per quella “epidemia di (cattiva) informazione” che secondo gli esperti si sta diffondendo ben più rapidamente del nuovo coronavirus. Per cercare di arginarla l’OMS ha chiesto ai social media più rilevanti di impegnarsi a rimuovere le notizie false e a indirizzare gli utenti verso fonti affidabili. Ma ovviamente non basta, perché anche da queste ultime a volte non riusciamo a ottenere tutte le informazioni che vorremmo e che sarebbero fondamentali anche per capire la correttezza di certe misure che appaiono a metà (ad esempio, perché a Milano chiudono i musei ma non altri locali?). Ciò avviene per un motivo semplice: il nuovo coronavirus è un agente infettivo nuovo e vi sono domande che sono ancora senza risposta. Alcune di queste sono molto rilevanti. Ad esempio non sappiamo con certezza se il nuovo coronavirus possa essere trasmesso da persone asintomatiche o che stanno incubando la malattia. Uno studio anticipato il 24 febbraio dal Centro per il Controllo e la prevenzione delle Malattie americano (Cdc), sembra indicare che la trasmissione sia possibile nella fase pre-sintomatica, ma i ricercatori restano cauti. Del resto spesso non è facile distinguere tra chi è del tutto asintomatico e chi presenta sintomi molto leggeri. A questo interrogativo si collega quello che riguarda i più giovani. I primi studi epidemiologi indicano che i bambini e i ragazzi fino a 15 anni sono meno soggetti al contagio e manifestano la malattia in modo meno grave. Se potessero però essere portatori sani e trasmettere il virus, potrebbero giocare un ruolo molto rilevante come veicolo dell’infezione. E poi, quanto può sopravvivere il microbo dopo essere stato deposto su una superficie, ad esempio per uno starnuto o da una mano infetta? Al momento l’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di un tempo che oscilla dalle poche ore a qualche giorno, ma è difficile dirlo: dipende dal tipo di superficie, dall’umidità e dalla temperatura dell’aria: sono necessari più studi e ci si basa molto su risultati ottenuti per altri coronavirus. L’ultima fra le questioni aperte che trovo più interessanti è più che altro un auspicio: che questo virus receda spontaneamente con l’arrivo della primavera. Altri virus lo fanno, in particolare quello dell’influenza. Guadagnare tempo darebbe una boccata d’ossigeno ai ricercatori di tutto il mondo che studiano il nuovo microbo e a quelli concentrati su possibili farmaci e vaccini.
La speranza però è flebile. Dunque la discussione scientifica sul nuovo coronavirus è ancora aperta su diversi fronti ed è nell’ordine delle cose che gli scienziati dissentano, si confrontino e discutano. È così che funziona la ricerca. Il fatto che su alcune questioni i ricercatori non parlino con voce univoca non vuol dire che ci sia qualcosa di nascosto e non bisogna preoccuparsi se le notizie che emergono a volte sembranodiscordare. Le indicazioni di comportamento ai cittadini invece devono essere univoche, coerenti e fondate su ciò che sembra meglio fare in base alle conoscenze oggi disponibili. Va detto, che quello delle autorità oggi non è un compito facile. Da parte nostra, il meglio che possiamo fare è attenerci alle indicazioni cercando per il resto di comportarci normalmente. Magari anche leggendo quella storia sul Dna dei Sardi.
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