Non tutto il capitalismo viene per nuocere.

Non tutto il capitalismo viene per nuocere.

Era il lontano, economicamente parlando, duemilaundici quando un quotidiano economico per accelerare un cambio di governo aprì la sua prima pagina con un titolo “Fate presto!”, sulla falsa riga del titolo che “Il Mattino” scelse per la ricostruzione del post terremoto dell’80 . Ebbene, a 8 anni di distanza ci ha pensato qualche giorno fa il #FinancialTimes a gridare il suo “Fate presto!” , impacchettando il tradizionale quotidiano rosa con un foglio giallo che annunciava un numero dedicato alla riforma del capitalismo. All’interno del giornale un articolo-saggio di Martin Wolf, suo principale commentatore economico, spiegava come il capitalismo anglosassone negli ultimi 40 anni sia andato maluccio e soprattutto negli ultimi 20 non riesca ad aumentare la produttività. Quali sarebbero i grandi mali del “capitalismo”, o meglio dell’economia di mercato, da curare con tanta urgenza? Essenzialmente cinque: le rendite di posizione, la minor concorrenza nel mercato, la bassa crescita della produttività, una crescente diseguaglianza e una democrazia degradata.

Orbene, non è così chiaro che questi difetti siano da attribuire all’economia aperta. Ad esempio, le rendite di posizione sono spesso create dallo Stato. Il primo modo in cui questo succede é attraverso la concessione di brevetti che garantiscono l’esclusiva per 20 anni agli innovatori. Ci sono molti buoni argomenti a favore della proprietà intellettuale e si può discutere se i confini della sua protezione non si siano allargati troppo, ma comunque addebitare al mercato una creazione dello Stato non ha molto senso. Lo stesso dicasi per la concorrenza: un elemento che scoraggia gli entranti potenziali in un settore economico sono gli alti costi della regolamentazione che non a caso è incoraggiata dagli oligopolisti già presenti e che possono permetterseli ribaltandoli sui consumatori. Lo stesso Wolf cita studi che dimostrano come la globalizzazione e il libero commercio non abbiano inciso più di tanto sulle diseguaglianze. Appunto: abbattere le barriere garantisce più opportunità e il funzionamento dell’ascensore sociale. Quanto ad uno dei motori della mobilità sociale, l’istruzione, essa ha assicurato una crescita per tutti nel momento in cui si dovevano alfabetizzare masse di persone e dotarle di nozioni adatte ad una società industriale.

Pur con molti difetti, una scuola pubblica sostanzialmente monolitica e con un’etica della disciplina e del lavoro diversa poteva bastare allo scopo. Oggi, in società frammentate e con saperi in rapida evoluzione, il monopolio non basta più e semmai è necessario stimolare innovazione e merito immettendo più concorrenza e meno direttive pubbliche uniformi nella scuola e nelle università. Pure in questo caso il problema è lo Stato, non il mercato. La bassa crescita di produttività è certamente un problema di tutte le economie avanzate, non solo occidentali. Anche in Cina tale crescita sta rallentando e negli anni della sua esplosione essa è stata causata da apertura dei mercati, migliore educazione della forza lavoro, investimenti dall’estero e in tecnologia, infrastrutture sempre più adeguate.

Niente di nuovo insomma. La crescente diseguaglianza degli ultimi 20 anni è dovuta oltre ai fattori prima descritti, altresì ai meccanismi adottati dalle corporation americane con la loro enfasi sui risultati immediati, le ricche stock option per i manager non legate alla crescita a lungo termine, la tassazione che privilegia il capitale, la finanziarizzazione dell’economia. Si tratta nei primi tre casi di scelte del legislatore, ossia la prevalenza dei manager sui proprietari e il premio ai redditi da capitale, che ora peraltro stanno cambiando. La finanziarizzazione, poi, è stata incentivata pure dai governi. In America furono leggi che agevolavano le concessioni di mutui a chi non era meritevole di credito a contribuire alla bolla dei subprime e la politica dei bassi tassi di interesse che creò “esuberanza irrazionale” era gestita dalla Banca Centrale, non dal “mercato”.

L’Italia, da sempre avversa al capitalismo che non sia di relazione o intimamente legato al governo, è un esempio controfattuale di come si possa spendere, tassare, dirigere, salvare imprese decotte e avere crescita zero. Tutto è migliorabile, anche il “capitalismo”, ma al “fate presto” è più consigliabile contrapporre un manzoniano “adelante con juicio”, mantenendo però i nervi saldi di fronte alle folle che assaltano i forni, nel XVII, come nel XXI secolo.